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Piazzale Roma è la porta d'ingresso di Venezia, il
biglietto da visita. Da anni subisce rifacimenti,
ristrutturazioni, nuove costruzioni, integrazioni senza
un disegno complessivo. Ogni intervento è slegato dagli
altri per stile modi e tempi di esecuzione. |
Al Ponte di Calatrava,
ovovia e
Cittadella della Giustizia è dedicata una pagina
specifica. |
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Pensilina per il tram a piazzale Roma |
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Per le attese ci sono ben 2 posti |
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La pensilina del tram? In Spagna una uguale,
Il Gazzettino 19 8 2015 |
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Hotel
Santa Chiara Piazzale Roma Venezia
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Foto di Alessandro Tagliapietra |
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Un cubo sul Canal Grande,
l’hotel che fa litigare Venezia
Tolti tutti i teli che coprivano la nuova costruzione di
cemento. Il progetto è figlio di un patto tra il Comune
e i privati
Gian Antonio Stella, Il Corriere
della sera 7 agosto 2015
«‘Na scarpa e un socòlo»: solo questa folgorante
immagine veneta può riassumere l’impatto del nuovo
«ingresso» di Venezia, lo spropositato catafalco bianco
che raddoppia e stupra l’Hotel Santa Chiara sul Canal
Grande. Una scarpa e uno zoccolo: di là l’antico,
piccolo e gentile albergo serenissimo, di qua il
cazzotto cementizio bollato subito come «un motel di
Segrate». Con tutto il rispetto per i motel e per
Segrate.
«Vi piace?», ha chiesto ai suoi lettori il Corriere del
Veneto. Risposta: 12,3% sì, 87,7% no. Vittorio Sgarbi si
spinge più in là: «È una vergogna. Dovrebbe essere
abbattuto e la soprintendente che ha dato l’ok essere
dimissionata all’istante. Era il mio albergo, una volta.
Non ci andrò mai più. Mai più. E spero che non ci vada
mai più nessuno. Che quelle stanze in più restino
vuote». Salvatores Settis, che pure non è tra gli amici
del critico, è totalmente d’accordo: «È una schifezza
che offende Venezia, offende i veneziani, offende tutti
coloro che nel mondo amano la città. Non hanno neppure
cercato di render meno invasiva questa intrusione.
Vergogna, vergogna, vergogna!».
Lo stesso proprietario del manufatto Elio Dazzo, che per
anni ha cocciutamente dato battaglia in tribunale per
poter costruire l’obbrobrio, fatica a dirsi entusiasta:
«Mi sembra un’opera semplice, pulita, che non disturba.
In piazzale Roma, tra la pensilina del tram e la
cittadella non mi pare un pesce fuor d’acqua...».
Il contrasto col retro dell’edificio, la poltiglia di
piazzale Roma coi grandi parcheggi auto, le rotatorie
per gli autobus, gli autonoleggi, le baracche dei
venditori di maschere e gondolette o la immensa bara
bruna della nuova Cittadella di giustizia,
effettivamente è ridotto. Piazzale Roma potrebbe essere
un brutto slargo cittadino del Texas o di Tijuana ed è
vero: il nuovo parallelepipedo con la scritta colorata «Vacancy»,
lì, non sfigurerebbe affatto.
Il guaio è che il confronto va fatto con
ciò che il nuovo motel Santa Chiara ha davanti. Il Canal
Grande. La via d’acqua più bella, più amata, più
narrata, più sognata, più dipinta e più fotografata del
pianeta. E lì il pugno nell’occhio del primo manufatto
in cemento e acciaio (il cristallo e le formelle di
vetro sono state tolte a quanto pare su consiglio della
Soprintendenza), è davvero traumatico. E certo non
bastano le linee avveniristiche del ponte di Calatrava,
lì accanto, a dare un senso al grossolano e incombente
scatolone bianco. Il colore del lutto, in tanti paesi.
Prova provata di quanti danni possa fare la spocchia di
architetti decisi a lasciare il loro marchio, la loro
firma, la loro zampata in un delicato contesto d’arte e
d’amore che altre mani hanno disegnato nei secoli.
«Di certo non può essere più brutto di quello di prima»,
ha ironizzato sullo stesso Corriere del Veneto Massimo
Cacciari, che sostiene d’aver messo dei bastoni tra le
ruote ai primissimi progetti. Lui stesso, però, torna in
queste ore sotto accusa. Stefano Boato, storico leader
ambientalista, rinfaccia a lui e al Comune d’aver tenuto
«una posizione ambigua fiancheggiando di fatto le
pretese del padrone dell’hotel per spalancare la porta,
col ponte di Calatrava e il raddoppio di Santa Chiara,
al peggiore sfruttamento di Venezia. Sono stato l’unico
in Comitato di salvaguardia, dove sedeva anche
l’architetto Antonio Gatto, l’autore del progetto che
quel giorno fece il gesto di uscire dalla stanza, a
votare contro».
Sia chiaro: come forse i lettori ricordano,
il mostruoso raddoppio dell’hotel sul Canal Grande è
figlio d’un patto scellerato vecchio e stravecchio.
Firmato negli anni 50 dagli amministratori di allora
(frontalmente attaccati da Indro Montanelli per progetti
scriteriati come la superstrada trans-lagunare su piloni
alti 30 metri) e la proprietà del Santa Chiara che
possedeva degli appezzamenti in quello che sarebbe
diventato piazzale Roma. Un po’ di terra in cambio della
licenza a costruire. Un errore gravissimo. Che avrebbe
avuto ripercussioni decennali. Finché certi giudici,
ritenendo che l’interesse pubblico (la vista sul Canal
Grande, patrimonio dell’umanità) non potesse prevalere
sugli affari di un privato e sulle vecchie scartoffie
notarili, decisero di imporre al Comune non un
risarcimento, come buon senso consigliava, ma il
rispetto integrale del patto scellerato. E dunque
obbligarono il municipio a concedere all’hotel
l’agognato raddoppio. Né fu consentito al Comune di
mettere dei paletti. Come ad esempio l’obbligo di
rispettare alcuni criteri. Macché.
Eppure, accusa l’ex assessore all’urbanistica Gianfranco
Vecchiato, «il Comune non può dire di non aver potuto
mettersi di traverso. Ci fu una certa ambiguità. Basti
dire che la fase finale del tormentone non fu gestita,
come doveva, dall’urbanistica ma dall’assessorato alle
attività produttive. Visto il progetto sul Gazzettino,
in giunta alzai la mano e dissi: “Massimo, ma è
orrendo!”. Cacciari mi fulminò: “Non sei tu che devi
dire se è bello o brutto, c’è la Soprintendenza”. Lei
sì, la soprintendente, poteva mettersi di traverso.
Poteva mettere il veto e fine. Ma non lo fece».
Dice tutto un’intervista del proprietario Elio Dazzo al
Gazzettino dopo il nulla osta di Renata Codello, l’unica
che avrebbe potuto dire no: «Voglio ringraziare la
Soprintendenza per l’assistenza che ci ha dato nella
revisione del progetto. La soluzione che abbiamo trovato
ha una sua valenza ed è abbastanza piacevole...».
Piacevole? Un immenso scatolone di cemento sul Canal
Grande? «Chi è lei per dare giudizi? È forse un
architetto? Non faccia l’architetto!», risponderà
piccata la soprintendente, poi promossa da Dario
Franceschini a Roma, al cronista che gli chiedeva conto
di certi rendering allarmanti e della bruttezza del
manufatto in costruzione prima che fosse pudicamente
ricoperto dai teli. E aggiungerà: «Son solo figurine.
Aspettate a vedere i lavori finiti».
Ecco, adesso li abbiamo visti. I lavori finiti. E non
c’è veneziano, non c’è veneto, non c’è italiano che non
possa vedere cosa è stato fatto, con il consenso dei
Beni Culturali, di quella che fu la porta di Venezia. |
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La stessa area qualche anno prima... Riepilogando cosa
possiamo aggiungere ancora fra il Palazzo di giustizia,
il people mover, la pensilina del tram, il ponte di
Calatrava e l'ovovia? |
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L'albergo (raddoppiato) che oscura il
Canal Grande
Il cantiere a piazzale Roma. Via libera
ai lavori di un edificio a 5 piani dopo un contenzioso
di 50 anni
A chi appartiene Venezia? A tutti, direte. No: per il
Tar un pezzo della città appartiene solo al suo padrone.
Che dopo un conflitto burocratico-giudiziario di 55 anni
ha cominciato a costruire un edificio per raddoppiare il
suo albergo vicino al ponte di Calatrava. Risultato: il
colpo d'occhio sul Canal Grande per chi arriva oggi a
piazzale Roma è mozzato dallo scheletro di un palazzo
moderno che potrebbe sorgere a Kansas City.
Il protagonista dell'estenuante battaglia di carte
bollate, ricorsi, controricorsi, intimazioni, condotta
per costruire quello che, a memoria dello storico Alvise
Zorzi, è il primo edificio moderno tirato su lungo il
Canal Grande dai tempi del Ventennio in cui fu rifatta
la stazione di Santa Lucia realizzata dagli austriaci,
si chiama Elio Dazzo ed è proprietario dell'Hotel Santa
Chiara, un convento di monache che ha più di cinquecento
anni e fu trasformato in un hotel diversi decenni fa.
Chi è stato a Venezia lo ricorderà senz'altro: è
l'unico, come dice lo stesso sito web, dove si può
arrivare in macchina: il retro è su piazzale Roma, la
facciata sul Canal Grande.
La contesa buro-giudiziaria in realtà, essendo durata il
doppio della Guerra dei Trent'anni che sconvolse
l'Europa nel Seicento, non fu cominciata dall'attuale
proprietario. Iniziò infatti nell'aprile del 1957,
quando sulla Sierra Maestra Fidel Castro organizzava la
guerriglia, a Roma nasceva la Comunità economica europea
e l'Unione Sovietica lanciava lo Sputnik. Un mucchio di
tempo fa.
La città era in mano a una classe dirigente in preda
alla fregola di modernizzare tutto e giravano idee folli
come quelle di superstrade trans-lagunari, grattacieli a
San Sebastiano, tangenziali sotterranee con
mega-parcheggi sotto San Marco. Anni in cui il sindaco
Giovanni Favaretto Fisca perorava a Roma il progetto di
una monorotaia di cemento armato stesa su migliaia di
tralicci a reggere vagoni come cabine di una funivia e
davanti al raccapriccio dei puristi un cronista lacché
arrivò a scrivere che quei piloni alti 35 metri non
avrebbero avuto alcun impatto visivo: «Basterà
dipingerli coi colori della laguna». Deliri.
In quel contesto, che faceva uscire pazzo Indro
Montanelli,
furente di quel genere di megalomanie che trascuravano
la manutenzione quotidiana, l'amministrazione del
sindaco Roberto Tognazzi firmò un accordo coi padroni
dell'Hotel Santa Chiara su certe particelle catastali di
piazzale Roma: tu dai un pezzo di terra a me, io do un
pezzo di terra a te. Restava inteso che si trattava di
terreni edificabili.
Per decenni, quell'accordo mai perfezionato fino
all'ultima marca da bollo, restò lì, a galleggiare nel
nulla. Finché una ventina d'anni fa i nuovi proprietari,
che usavano quel terreno in riva al Canal Grande come
parcheggio (chi vuole può vedere in Google Earth come
era fino a poco fa la situazione) decisero di passare
all'incasso di quell'antico accordo rimasto in un
cassetto a coprirsi di polvere.
L'amministrazione comunale dice oggi che tentò di
guadagnare tempo, anno dopo anno, approvando nel 1997
una convenzione che finalmente perfezionava i passaggi
di proprietà del vecchio accordo (anche in funzione del
futuro ponte di Calatrava) e consentiva una nuova
volumetria per 9.885 metri cubi su una superficie di 659
metri quadrati, lasciando però un po' tutto in
sospeso...
Due anni dopo, il proprietario chiedeva una
licenza edilizia per ampliare l'albergo in attuazione
dell'accordo del '57 e il Comune respingeva la richiesta
legando la possibilità di costruire alla stesura del
Piano particolareggiato. Come dire: campa cavallo...
Altri quattro anni d'attesa e il Tar dava ragione al
privato: il contratto del '57 faceva testo, quindi erano
nulli sia il rifiuto della licenza sia la condizione
posta sul Piano particolareggiato. A quel punto,
sostiene l'amministrazione attuale, il Comune tentava
l'ultima carta per fermare il cantiere prendendo atto
del verdetto del Tar ma mettendo dei paletti perché
l'edificio si armonizzasse ad alcuni criteri. Nuovo
ricorso al Tar e nuova sentenza: quei paletti non li
poteva mettere. «A quel punto», spiega l'assessore
all'Urbanistica Ezio Micelli, «il municipio era con le
spalle al muro. Non poteva più fare niente. L'ultima
parola spettava alla commissione di salvaguardia e alla
sovrintendenza».
In origine, in realtà, pareva che Elio Dazzo, oggi
presidente dell'Aepe (l'Associazione pubblici esercizi)
e dell'Apt veneziana nonché tra i promotori
dell'associazione «Sì Grandi Navi» a favore della
navigazione in bacino degli immensi bastimenti da
crociera lunghi il doppio di piazza San Marco, volesse
solo fare un garage sotterraneo. O così avevano capito
in tanti. Tanto che La nuova Venezia di due anni fa
pubblicò un pezzo dove diceva che l'assessore ai Lavori
pubblici Alessandro Maggioni era intenzionato a mettersi
di traverso al «garage» perché preoccupato, dopo uno
studio fatto dal Politecnico di Torino, per la stabilità
del ponte di Calatrava che è lì accanto.
Fatto sta che di sentenza in sentenza le cose sono
andate avanti ed è oggi in costruzione, in riva al Canal
Grande, un edificio molto vistoso di due piani di garage
interrati più altri tre (diciamo tre e mezzo) di una
nuova ala dell'hotel. Tutto di cemento ricoperto, pare
di capire, di una avveniristica superficie a vetro.
La sovrintendente Renata Codello,
già al centro di altre polemiche per aver detto a una tv
austriaca (vedi YouTube) di non esser poi preoccupata
per le grandi navi da crociera, sbotta: «Avremo bocciato
venti progetti! A un certo punto cosa potevamo fare?».
Invita a non guardare i rendering che fanno immaginare
un lucente parallelepipedo che starebbe benissimo in
Qatar o nel Nebraska: «Son solo figurine. Aspettate a
vedere i lavori finiti. L'architetto ha lavorato con
Renzo Piano». E guai a parlare, nel contesto veneziano,
di una bruttura: «Lei è architetto? Non faccia
l'architetto». A proposito, il progetto è firmato da
Antonio Gatto, presidente dell'Ordine degli architetti e
(pura coincidenza) storico membro della commissione di
Salvaguardia, cioè l'organismo che avrebbe potuto
bloccare tutto o comunque imporre regole rigidissime.
E torniamo al tema iniziale: ammesso che tutte le leggi
siano state applicate in modo cristallino, davvero il
legittimo interesse economico di un privato viene prima
dell'interesse di tutti i cittadini del mondo ai quali
viene imposta una prospettiva di quel tratto del Canal
Grande che non sarà mai più quella di prima? E non sarà
questo parallelepipedo di cemento e di vetro il
grimaldello per scardinare le difese di altri pezzi di
Venezia?
La Costituzione italiana, all'articolo 9 dice che la
Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico
e artistico della Nazione». E gli articoli 41 e 42
spiegano chiaramente come l'interesse della proprietà
privata abbia comunque dei limiti negli interessi
superiori della collettività. C'è chi dirà che esiste
anche un articolo 29 che sanciva solennemente: «Tutte le
proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili». Ma
si trattava dello Statuto Albertino...
Gian Antonio Stella
Il Corriere della Sera 22 settembre 2012 |
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Stefano Boato, Venezia, quei vecchi vincoli sono
stati aggirati da tutti, La Nuova Venezia 11 8
2015 |
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Anche i dettagli sono fatti a ... Si veda le "panchine"
alla fermata degli autobus. Non solo sono delle
squallide strisce di legno, ma sono poste dal lato del
parcheggio! Come si vede i passeggeri aspettano seduti
su un bordo tagliente di cemento. |
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Quelle panchine montate storte tra il parcheggio e la
fermata bus. |
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