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Joshua Slocum

 
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La storia. Capitani coraggiosi

BJÖRN LARSSON

QUELL’ESTATE passai molto tempo sulle mura di cinta a guardare il mare. Osservavo le barche che sparivano verso l’orizzonte tra le isole e le boe, e bevevo birra al pub l’Univers, le cui pareti erano tappezzate di fotografie e ritratti di celebri marinai e naviganti, da Cartier, il primo esploratore del Québec, a Tabarly, il più famoso velista francese. Ben presto mi fu chiaro che quasi tutto a Saint-Malo ruotava attorno alla marineria, alla navigazione e al mare e che la stessa cosa sarebbe accaduta anche a me: il seme del sogno era piantato, anch’io un giorno avrei navigato per conto mio sull’oceano. Certo, di strada da fare me ne restava parecchia: non sapevo navigare. Così, quando tornai in Svezia, feci quello che faccio di solito quando voglio realizzare un sogno, che si trattasse di vivere sott’acqua sulle tracce di Cousteau o diventare scrittore seguendo quelle di Hemingway: andai in libreria. Fu lì che incontrai Joshua Slocum e il suo Solo, intorno al mondo. La copia con le pagine ormai ingiallite e la copertina logora che mi ha seguito di barca in barca nella mia biblioteca di bordo risale al 1977, l’anno in cui il libro uscì in Svezia all’abbordabile prezzo di cinque corone — anche troppo poco per un libro che mi avrebbe cambiato la vita. Fu una vera e propria rivelazione. Trovai espressa nero su bianco una possibilità di vita che fino ad allora avevo solo intuito da lontano: era davvero possibile navigare intorno al globo da soli, sulla propria barca, con la propria casa sotto i piedi, se pure non sulla schiena come le chiocciole? A quanto pareva, sì.

 

Nessuno può circumnavigare il globo senza la sua dose di tempeste e onde di altezza vertiginosa, ma Slocum non perde mai la testa: ci è già passato, anche se non da solo e non su una barca a vela di undici metri varata quasi cent’anni prima, e sa che una volta che è in ballo deve ballare. Non se la prende mai con il mare, per maledirlo o rivolgersi a qualche potenza celeste che gli salvi la pelle. Anzi, sminuisce sempre le proprie imprese. Esistono scrittori che come persone lasciano alquanto a desiderare ma che hanno scritto ottimi romanzi, come per esempio Céline, ma è difficile appassionarsi davvero a un racconto di navigazione se non si prova la minima simpatia per la persona che l’ha scritto. Questa complicità con l’autore diventa ancora più importante quando costui è anche l’unico protagonista del libro, com’è necessariamente il caso quando si tratta di navigazione in solitaria. Anche lasciando da parte l’indubbia abilità di Slocum nel descrivere ciò che vede e vive, sono convinto che siano le sue caratteristiche personali, il suo atteggiamento verso la vita, il mare e la vela, a rendere il suo libro una lettura così piacevole, e la sua navigazione così esemplare e ispiratrice.

Non giudica né condanna mai le persone che incontra durante i suoi viaggi, nemmeno i pirati che lo inseguono nel Mediterraneo o gli indigeni che gli fanno la posta nello stretto di Magellano. Perfino il presidente Krüger, che a Città del Capo cerca di convincerlo che la Terra è piatta, viene descritto con divertita indulgenza. Una prova della sua determinazione è l’attraversamento dello stretto di Magellano sotto incessanti venti di tempesta. Per ben sei volte viene risospinto indietro, una delle quali dopo aver doppiato Capo Horn, e nel frattempo deve continuamente guardarsi dagli indigeni che circondano lo Spray non appena il vento cala a sufficienza da mettere in mare le loro canoe. Entra nello stretto di Magellano l’11 febbraio e vede i monti della Patagonia sparire a poppa il 14 aprile: gli ci vogliono più di tre mesi di lotta dura e faticosa contro gli elementi per attraversare lo stretto a vela. Non va nemmeno dimenticato che Slocum aveva passato i cinquanta, all’epoca un’età considerevole. Un uomo e marinaio meno abile, dotato di meno coraggio e resistenza, avrebbe rinunciato molto prima, soprattutto dopo aver evitato per un pelo di affogare. Mentre Slocum sta calando l’ancora, il suo battello si capovolge all’improvviso sotto una raffica violenta: «In quel momento ricordai che non sapevo nuotare», annota. Ma malgrado le traversie, riesce sempre a dare prova di tenerezza e rispetto per quella natura inospitale: «C’era un certo tipo di cigno più piccolo di un’anatra muschiata che avrei potuto abbattere con il fucile, ma nella mancanza di vita che caratterizzava quella terra tanto triste, non me la sarei sentita di distruggerne anche solo una, se non per difendermi».

 

Ma tra tutte le qualità di Slocum, quella che ha lasciato un’impressione più persistente è il modo con cui affronta la solitudine. All’inizio sembra essere la cosa che lo spaventa di più. Per abituarsi ad affrontare le situazioni più difficili parla da solo, dando ordini ad alta voce. I suoi timori si avverano quando incontra una tempesta proprio mentre è in preda a forti dolori allo stomaco. Dovrebbe prendere una mano di terzaroli, ma non ha le forze per farlo. È dopo quell’episodio che viene a patti con la solitudine, e se la gode. Che all’epoca navigare in solitaria non fosse affatto una cosa scontata emerge chiaramente dalle reazioni che incontra a terra. Molti erano scettici o non credevano che fosse solo a bordo: non era semplicemente possibile. Durante una delle sue molte tappe, Slocum fece suffumicare la barca per dimostrare di non avere nessun marinaio nascosto a bordo. Insomma, era perfettamente consapevole di essersi lanciato in un’avventura unica, a cui molti avrebbero fatto fatica a credere. Ma quello che riuscì a dimostrare fu proprio che era possibile attraversare in solitaria gli oceani e tornare a casa per raccontarlo, anche su una piccola barca, sempre se si sapeva cosa si stava facendo.

Non posso esserne certo, ma credo che sia stato Solo, intorno al mondo a piantare il seme che in seguito ha spinto tanti altri ad avventurarsi da soli in mare, alcuni per l’esperienza in sé, altri per vincere una regata o battere un record di velocità. Il racconto di Slocum dà al lettore una sensazione di libertà a cui è difficile resistere. Nello Specchio del mare Conrad, un altro che sa bene di cosa parla, sostiene che i naviganti in genere non amano il mare, come piace romanticamente credere ai marinai d’acqua dolce: lo temono e lo rispettano. Al contrario, nutrono un amore profondo per le proprie navi, anche quando si tratta di ignobili bagnarole tenute insieme solo dalle tante mani di vernice. Conrad sottolinea anche che l’amore che si prova per una nave è diverso da tutti gli altri tipi d’amore, perché non ha niente a che vedere con il possesso. I marinai farebbero qualsiasi cosa per salvare una nave in difficoltà, compreso mettere a rischio la propria vita, anche quando non hanno in ballo alcun interesse economico. La mia seconda barca, un Folkboat con numero velico 38 costruito nel 1943, veniva ritenuta goffa come un rospo. Si chiamava Skum, “schiuma”, proprio in onore dello Spray di Slocum. Per due anni ci navigai senza motore, e con lei si creò un legame molto personale. Quando la vendetti per passare a un IF-boat dotato di pozzetto autosvuotante, in modo da permettermi navigazioni più lunghe, lo feci con il dolore nel cuore, non solo metaforicamente, letteralmente: fu una vera e propria sofferenza.

Su un punto lo Spray si differenzia da tutte le barche su cui ho navigato o di cui ho anche solo sentito parlare: aveva una stabilità di rotta fenomenale e poteva navigare in autonomia per miglia e miglia, se aveva le vele ben regolate.

 

Ecco cosa scrive Slocum dell’ultima traversata dell’Atlantico: «In quei ventitré giorni non ho passato più di tre ore al timone, includendovi il tempo impiegato a bordeggiare nel porto delle Keeling. Mi limitavo a bloccare la barra lasciando andare la barca. Non faceva differenza se il vento soffiasse al traverso o di poppa: l’imbarcazione teneva la sua rotta». Roba da far morire d’invidia i navigatori del giorno d’oggi, che non possono lasciare il timone più di un minuto o due prima che la loro barca vada all’orza o peggio ancora alla poggia, a rischio di una bella strambata. Mi spingo anzi ad affermare che Slocum non avrebbe mai potuto portare a termine il suo giro del mondo, o almeno non in modo così felice e fortunato, se non fosse stato per la capacità dello Spray di mantenere la rotta. Lo skipper poteva sempre contare sul fatto che la sua barca se la sarebbe cavata da sola anche quando si ballava e che avrebbe proseguito dritta per la sua strada mentre lui riposava, si preparava da mangiare o tracciava la rotta. In inglese si dice che per essere adatte alle lunghe navigazioni le barche a vela devono avere due caratteristiche: devono essere seakindlye seaworthy, letteralmente “gentili con il mare” e “degne del mare”. Devono avere il timone leggero, essere stabili di rotta e sapersi muovere con dolcezza tra le onde senza piantarsi. Non devono imbarcare acqua se qualche onda si abbatte in coperta, devono essere in grado di resistere a un arenamento senza perdere la chiglia e non disalberare in caso di vento forte o scuffiata.

Forse una sola qualità mancava allo Spray, la bellezza. Ma la barca a vela perfetta non esiste, così come non esiste il racconto di navigazione perfetto. Anche se sia lo Spray che So-lo, intorno al mondo alla perfezione si avvicinano parecchio.

Traduzione di Katia De Marco

© Björn Larsson

La Repubblica 13 4 2014

 

 il libro

il testo di Larsson che qui pubblichiamo fa da prefazione a “solo, intorno al mondo” di Joshua Slocum che verrà ora ripubblicato in Italia da nutrimenti (240 pagine,16 euro, traduzione di Amilcare Carpi de Resmini) con i disegni originali di Thomas Fogarty e George Varian realizzati per la prima edizione del 1900

 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

: penzo.gilberto