MOSE, UN MOSTRO CHE UCCIDE VENEZIA
Raffaele Liucci
Era da
almeno vent’anni che i veneziani non conniventi
aspettavano la «grande retata» che il 4 giugno scorso ha
scoperchiato il vaso di Pandora del Mose e azzerato la
classe dirigente lagunare, colta con le mani nel sacco.
Eppure, quel giorno il sollievo non riusciva a
compensare l’amarezza per essere vissuti in una città di
sicofanti, senza avere avuto la forza di contrastarli
sino in fondo.
Dobbiamo comunque essere grati a Giorgio Barbieri e
Francesco Giavazzi per aver condensato in un agile
prontuario, soprattutto ad uso dei «foresti», tutto
quanto c’è da sapere sul Mose. Così, mentre buona parte
degli inquisiti sta facendo la fila davanti al Tribunale
di Venezia per patteggiare la pena, possiamo rispondere
ad almeno tre domande fondamentali.
Innanzitutto, come è stato possibile che l’ex
Serenissima, dolcemente, in stato d’anestesia, si sia
lasciata espugnare dalla «cricca»? Perché, rispondono
gli autori, nel suo dominio trentennale il Consorzio
Venezia Nuova (il pool che riunisce le imprese impegnate
nella costruzione delle dighe mobili contro l’acqua
alta) non ha assunto soltanto le fattezze della
«piovra», ma anche quelle – più suadenti – del bancomat
gratuito, con fior di beneficiari: dalle banche all’alta
burocrazia (grazie ai contratti di consulenza e ai
collaudi), sino agli enti religiosi, alle associazioni,
agli editori, alle biblioteche, ai teatri e ai musei.
«Dazioni» a volte legittime e a volte illegittime,
comunque sempre ben accette da tutti. Un’«egemonia
culturale» che avrebbe fatto impallidire Antonio
Gramsci.
Seconda domanda: era prevedibile questa deriva? La
risposta è senz’altro affermativa: tanto che già nel
lontano 1983 l’idea lanciata dall’allora potentissimo
ministro socialista Gianni De Michelis di affidare in
concessione unica la costruzione del Mose ad un
consorzio di imprese aveva suscitato l’indignazione del
repubblicano Bruno Visentini, ostile per principio ai
monopoli. Il dissidio fra il «doge» De Michelis (poi
travolto da Tangentopoli e condannato per gravissimi
reati corruttivi) e il «veneziano di terraferma»
Visentini non era soltanto una baruffa chiozzotta.
Rispecchiava due visioni antitetiche del mondo. Da un
lato, la lumpen-borghesia di De Michelis, un distillato
di nani, ballerine, donnine allegre, discoteche e
fruscianti mazzette. Dall’altro, la borghesia luterana
di Visentini, un uomo colto, elegante, efficiente,
onesto, nemico di ogni privilegio castale. Basti dire
che quand’era consigliere comunale a Venezia disdegnava
le telefonate private dal municipio, preferendo
l’apparecchio a gettoni giù in calle.
Terza domanda: ma il Mose, costato sinora quasi sei
miliardi di denari pubblici, salverà davvero Venezia
dalle acque alte? Difficile dirlo, visto che fior di
tecnici e scienziati – a differenza di quelli sul libro
paga del Consorzio – hanno da sempre avanzato seri dubbi
sulla sua funzionalità. Ma anche se il giorno
dell’inaugurazione (prevista fra tre anni) dovesse
filare tutto liscio, non è affatto detto che i colossali
costi di manutenzione richiesti dalle dighe mobili
(ubicate sott’acqua!) possano garantirne la
sopravvivenza. Il maggior merito di Barbieri e Giavazzi
è proprio questo: smentire una certa vulgata interessata
che mira a scindere il Mose, «grande opera necessaria»,
dal suo sfruttamento criminale. In realtà, il Mose è un
progetto elefantiaco che nasce già vecchio, concepito
nei lontanissimi anni Settanta. Un progetto talmente
devastante dal punto di vista paesaggistico, ambientale
e finanziario che per attuarlo è stato necessario
aggirare e stravolgere ogni regola. Lo scandalo,
insomma, non è nella gestione del Mose, ma nell’opera in
sé, paradigmatica di «un sistema trasversale che ha
corrotto il Paese a tutti i livelli, durante la prima e
la seconda Repubblica».
Se il doge dell’omonimo romanzo di Aldo Palazzeschi si
affacciasse oggi dalla Loggia di Palazzo Ducale e
contemplasse la sua città, probabilmente si suiciderebbe
all’istante per la depressione, sfracellandosi al
suolo.
Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a
norma di legge. La lobby grandi opere che affonda
l’Italia, Rizzoli, Milano 2014, pagg. 238, € 15,00.
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«Votatelo,
pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico
adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro
Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e
affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma
nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e
sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici,
però, è così vasto da imporre finalmente una guerra
vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta.
La finta emergenza
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché
c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio
dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in
tempi così drammaticamente rapidi da non consentire
percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli
esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse.
Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni,
nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare
il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8
corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non
cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la
creazione d’un concessionario unico, il Consorzio
Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo
straccio di una concorrenza e dopo essere stato così
pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi
dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose
e pretende di presentarsi come una verginella al primo
appuntamento.
La
scadenza del 1995
C’è dentro quel rapporto insano tra la
cattiva politica e il cattivo business così stretto da
chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui
materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare
l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio
Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni
di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La
scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci
un piccolo slittamento...». Sono passati quasi
vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati
degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in
Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui
tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i
leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un
cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora
aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più
ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per
le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni
prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano
d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato
più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha
ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non
potevo toccare palla». Una linea verticistica che la
Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di
pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che
oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di
«otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da
Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
Doveva costare 1,3 miliardi: ne costerà
sei
E poi c’è dentro, in questa brutta
storia, il continuo rincaro delle spese, la peste
bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare
un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose.
E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in
furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto
che ne basteranno sei.
C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e
insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica,
come nel caso della stupefacente querela per
«accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui
giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e
Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere
criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili,
la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi,
come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il
compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009»
all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di
“una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di
giustificazione contabile», per non dire delle case
affittate in California, delle consulenze distribuite ad
amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni
di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di
trentuno anni di stipendio del presidente della
Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo
finito in manette.
I soldi dei cittadini
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti
soldi privatamente gestiti come in una combriccola di
società private ma tirati fuori dalle tasche degli
italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia
dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura
e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza»,
cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio
dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del
canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo
200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di
una laguna delicata la cui profondità media era di 110
centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene
della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni
ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li
Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il
Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli
affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione
fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra
ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei».
Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i
cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler
credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una
frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei
moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il
«pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una
svolta vera. Nei fatti.
Tanti scandali, pochi in carcere
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8
alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e
poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il
Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia
infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne
su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come
mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla
bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si
posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me
vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla
settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e
da lì all’estate successiva...
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano
don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni
sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta
la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare
le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote
dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione
di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato,
le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%,
quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso
d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più
pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il
rapporto 2013 dell’Institut
de criminologie et de droit pénal curato
dall’Università di Losanna, che nelle nostre carceri
solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati
economici e fiscali, tra cui la corruzione e la
concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più
bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una
coincidenza se la Germania, il Paese di traino del
Continente, ha le galere più affollate di «colletti
bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che
arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte
di meno? |