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Dedichiamo questa pagina a
riflessioni e citazioni su: artigiani, maestri d'ascia e
in generale ai quelli che svolgono i mestieri a torto
definiti "manuali".
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L'AMACA
MICHELE SERRA
Anteporre una buona scuola
professionale a una mediocre e tardiva laurea, come ha
fatto il viceministro Martone, significa affrontare un
tabù. Nella tradizione classista del nostro Paese, le
scuole professionali e i lavori manuali sono considerati
da sempre lo sbocco naturale dei figli dei poveri; la
laurea, il dovuto approdo dei figli dei ricchi. E
dunque, quel politico che faccia l'elogio delle scuole
professionali rischia di passare per un reazionario che
non vuole aprire a tutti le porte dell'università.
Ma io credo che Martone alludesse a
un'altra verità, tutt'altro che reazionaria: tra un
"dottore" dequalificato e mal pagato e un artigiano che
sa il fatto suo, chi se la passa meglio? La destrezza
manuale è, tra l'altro, cultura essa stessa, specie in
un Paese di artigiani e tecnici sopraffini quale siamo
da qualche secolo. Il disprezzo per il lavoro manuale in
quanto tale, e per scuole professionali a volte ben più
brillanti e funzionali di certi deprimenti atenei, è uno
dei veri grandi problemi dei nostri figli. Convinti,
anche per colpa nostra, che un dottorato a prescindere
valga un'autorevolezza sociale che solo il lavoro (anche
manuale) è invece in grado di dare. Una società di
piccolo-borghesi frustrati non è affatto migliore di una
società di artigiani e operai realizzati. |
Da La repubblica 25 1 2011 |
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Segnalo una interessante
trasmissione di rai radio 3 del 28 12 2010, (che si può
riascoltare in podcast e scaricare) sul tema dei
cosiddetti lavori manuali contrapposti alle varie
lauree. Si parla
sempre più frequentemente della "bellezza" del lavorare
manualmente, sospinti più che altro dall'inutilità della
laurea e dalla impellente necessità di trovare un
qualsivoglia artigiano ancora in attività. La realtà è
che le code si formano solo alle segreterie delle
Università e non per cercare lavoro dagli artigiani.
Ancor'oggi, come dice Zecchi
"Un figlio di un avvocato,
se decide di fare il fabbro, crea disperazione in
famiglia." |
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La disoccupazione? Colpa dei genitori
Stefano Zecchi da Il giornale 28 12 2010
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Bei tempi quando il famoso «pezzo di carta» dava il
diritto ad entrare tra la gente che conta! Un lavoro
importante, un bello stipendio: per molti era il
biglietto da visita dell’emancipazione sociale oppure la
conferma di appartenere alla classe dirigente della
nazione. Era un altro mondo. Brutta cosa avere nostalgia
del passato, ma quando lo sguardo all’indietro spiega un
percorso sbagliato, la nostalgia si prende la rivincita.
Cosa si è sbagliato? Ma, intanto, perché si è sbagliato?
Nella media europea l’Italia ha pochi laureati e molti
disoccupati laureati. Senza scomodare ancora le
statistiche, è invece sotto gli occhi di tutti l’assenza
di artigiani qualificati. In questi ultimi
cinquant’anni, abbiamo avuto un grande sviluppo di
impiego «astratto» e una perdita secca di lavoro
«manuale». È il risultato di una visione culturale messa
in atto dalla politica più vicina all’idea che lo
sviluppo egualitario della società fosse la scelta
giusta da perseguire attraverso lo studio universitario.
La laurea diventa così, per molti genitori di umili
origini, l’obiettivo che i propri figli avrebbero dovuto
raggiungere per riscattare la povertà famigliare.
Quante volte nei miei anni di insegnamento mi sono
sentito dire: «Abbiamo fatto tanti sacrifici che lei
neppure se lo immagina, professore, per far studiare
nostro figlio. E adesso che si è laureato - l’ha
laureato lei, si ricorda? - è disoccupato da più di un
anno. Ci aiuti: cosa dobbiamo fare?». E io non posso
farci, purtroppo, niente.
Quella divisione sociale, che certa politica di sinistra
pensava di superare facendo tutti dottori, non soltanto
non è stata superata, ma è diventata molto più crudele
di un tempo. Adesso abbiamo laureati, avvocati,
ingegneri, architetti, che hanno buoni guadagni perché
lavorano nello studio del padre; e poi abbiamo il gran
numero di laureati disoccupati semplicemente perché sono
figli di nessuno, di nessun professionista. Sono senza
lavoro e, per di più, frustrati, delusi: forse ancor più
delusi e frustrati i genitori rispetto ai figli con quel
«pezzo di carta» che è costato tanto e che non serve a
niente. Ovvio, la regola ha le sue eccezioni: per
fortuna e per bravura c’è ancora chi, pur figlio di
nessuno, riesce ad aprirsi la strada. Ma è una piccola
minoranza.
D’altra parte, cosa dovrei dire a quei genitori
sconsolati, talvolta - vi assicuro - disperati, che
vengono a chiedermi aiuto? Dovrei spiegare che le lauree
universitarie sono cose per disoccupati, quando
nell’università sorgono come funghi le più allettanti
(in apparenza) «offerte formative», che prevedono i più
impensabili, fantasiosi e assolutamente inutili corsi
accademici come, per esempio, quello sul «benessere dei
cani e dei gatti» (giuro che è così)?
Il ministro della Pubblica istruzione sta facendo un po’
di repulisti in questi corsi di laurea velleitari che,
comunque, non si dimentichi, non sono sorti per colpa di
un destino cinico e baro, ma dalla testa dell’ex
ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer.
Finalmente, quello che con franchezza non riesce a dire
il professore, lo dice adesso il ministro Sacconi. È
stata sistematicamente distrutta la cultura del lavoro;
è stato umiliato il lavoro dell’artigiano, quasi fosse
un’attività per deficienti e, di conseguenza, è stata
costruita un’impalcatura scolastica con cui si è
azzerato il valore dello studio che preparava alla
professione dell’artigiano. Politica e sindacato hanno
meticolosamente costruito l’idea che il diritto allo
studio fosse il diritto a laurearsi. Ottima la
convinzione che la laurea diventasse un obiettivo per
chiunque, ma deleteria la comunicazione sottostante a
quella convinzione, e cioè che soltanto i laureati
avrebbero potuto avere un lavoro dignitoso.Naturalmente
in questa trappola ideologica ci sono caduti per primi i
genitori più sprovveduti, proprio quelli che più
andavano difesi. I genitori, cioè, che sognavano per i
propri figli una vita migliore della loro, proprio
grazie al «pezzo di carta». Ma non soltanto loro sono
stati ingannati dall’idea che solo la laurea potesse
rappresentare un dignitoso punto d’arrivo scolastico per
i propri figli.
Va cambiata una mentalità; solo una cultura politica che
restituisca significato e valore sociale al lavoro
artigianale può modificare quella mentalità. I genitori,
a cui sta a cuore la sorte dei propri figli, devono
essere aiutati a capire, attraverso iniziative politiche
e sindacali nel mondo della scuola e del lavoro, che il
«pezzo di carta» è oggi, sempre più spesso, un qualunque
pezzo di carta. |
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Link
alla trasmissione: Tutta la città ne parla di Rai 3 |
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Artigiani a rischio estinzione, Il Venezia, 21 gennaio
2008
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Il
letto di ciliegio che allunga le nozze
di Mauro Corona
da La repubblica 27
gennaio 2008
Leggi tutto
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Il
maestro d'ascia e la danza del legno
di Paolo Rumiz
La repubblica, 27
gennaio 2008
Leggi tutto
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Aggiungo alcune mie
riflessioni su questo tema, che mi è sempre stato molto
a cuore, inserite in conclusione del libro Maestri
d'ascia. Costruire barche a Venezia,
edito da Marsilio:
Questo mondo [dei
cantieri tradizionali] si è dissolto per parecchi
motivi, il primo molto banale: si può guadagnare di più
con molta meno fatica, meno rischi e problematiche. Per
esempio affittando il cantiere per farne un deposito o
un rimessaggio di imbarcazioni.
Secondo: forte
riduzione della quantità e della qualità della
richiesta, i pochi che vogliono ancora una barca di
legno per lavoro o sono dei nostalgici o chiedono solo
quanto costa.
Terzo: aumento
esponenziale degli oneri e delle prescrizioni, fiscali,
ambientali, di sicurezza ecc. Quello che prima si faceva
in modo ruspante, da soli, ora richiede almeno una
segretaria, un commercialista, un addetto alle paghe e
non di rado un avvocato, un architetto, un addetto alla
sicurezza. È poi difficile spiegare al padrone di una
barca che solo la minima parte del costo finale, è dato
dal materiale e dal lavoro, mentre tutto il resto è
rappresentato da oneri aggiuntivi.
Quarto: difficoltà a
trovare allievi ed aiutanti; nonostante la tanto
enfatizzata disoccupazione giovanile, non se ne trova
uno disposto a rimboccarsi le maniche. Non solo, ma le
giuste tutele che hanno ottenuto i lavoratori
dipendenti, rendono in sostanza impossibile il lungo
apprendistato necessario a diventare un carpentiere
“finito”.
L’elenco potrebbe
continuare a lungo, ma i motivi brevemente accennati
sono per i più ampiamente sufficienti per gettare la
spugna.
Non si tratta,
però, solo di ragioni economiche, lo squerariolo
abbandona anche perché non sente di avere più quella
considerazione e quel prestigio di cui godeva. E non si
riconosce più in un mondo sgangherato dove non vince il
più abile, il migliore, ma il mediocre che, però, gode
degli agganci giusti.
Ora ci sono solo
“posti di lavoro” dove non è richiesta una qualche
speciale abilità e dove si può imbozzolarsi al riparo da
ogni critica; mentre i mestieri si basano essenzialmente
sulla passione, sulla continua tensione al
miglioramento, al gusto della personalizzazione delle
proprie creature che rimangono tali, come i figli, anche
dopo essere state consegnate (non vendute) al
committente.
GP 2005 |
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