Perché un convegno sulle artiglierie
navali e perché a Venezia?
L’idea di organizzare un convegno sulle artiglierie
navali è venuta principalmente dalla mancanza assoluta
di un’occasione di incontro e confronto tra specialisti,
sia di formazione storica sia di formazione
archeologica, di questo settore. Se possiamo individuare
nel Journal of the Ordnance Society una rivista
specializzata dove è possibile pubblicare i risultati
scientifici dello studio delle artiglierie e nell’International
Journal of Nautical Archaeology una rivista, dedicata
all’archeologia marittima, aperta ad accogliere ricerche
su artiglierie provenienti da relitti di navi, non siamo
invece in grado di menzionare occasioni di incontro
fisico e di discussione tra gli studiosi di artiglierie.
In
questa occasione, inoltre, si sono voluti mettere in
contatto gli specialisti del settore, perlopiù di
formazione storica, e gli archeologi marittimi che nelle
artiglierie si sono imbattuti o più meno per caso o per
approfondimenti di studio o per esigenze di tutela. È
ora infatti che si crei un rapporto di collaborazione
tra specialisti e archeologi marittimi anche per evitare
di cadere nei soliti luoghi comuni che hanno portato,
solo per fare un esempio, all’interpretazione dei resti
di un relitto con cannoni, quello di Filicudi esposto al
museo di Lipari, come una nave spagnola seicentesca
quando in realtà le bocche da fuoco sono di
fabbricazione veneziana cinquecentesca.
Il
settore inoltre è privo anche di un testo di riferimento
che, riunendo contributi dei maggiori specialisti, offra
uno strumento aggiornato e completo ai non addetti ai
lavori. Fa eccezione solo il volumetto, di non ampia
circolazione, Guns from the Sea, numero speciale dell’IJNA,
che raccoglie gli atti dell’incontro tenutosi a Londra
nel 1986. Gli atti, esito di queste due giornate di
incontro, che saranno editi da un editore
internazionale, dovrebbero quindi sopperire a questa
lacuna.
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In Italia, ma diremmo
anche più in generale in quasi tutto il Mediterraneo, lo
studio delle artiglierie è condotto da ricercatori non
incardinati in istituzioni di ricerca, dove la materia è del
tutto ignorata, e in qualche caso è purtroppo intrapreso da
dilettanti non propriamente all’altezza.
Nello
specifico caso della situazione italiana va anche detto che
i pochi studiosi preparati su questa materia stanno
analizzando prevalentemente il comparto geografico a loro
vicino: si ha quindi una copertura sufficiente per quanto
riguarda le Repubbliche di Venezia e di Genova, una
copertura parzialmente adeguata per il Vicereame spagnolo di
Sicilia ed invece una copertura appena agli inizi per il
Ducato di Toscana. Rimangono ancora del tutto da indagare
gli altri due stati preunitari con interessi marittimi e
flotte da guerra, rappresentati dallo Stato Pontificio e dal
Regno di Napoli. Sarebbe quindi auspicabile che forze nuove,
soprattutto dotate della passione e dell’energia proprie
delle giovani generazioni, iniziassero a colmare queste
lacune con l’aiuto degli specialisti già affermati.
Inoltre, è auspicabile che in Italia come altrove, si
instaurai una visione d’insieme che comprenda tutte le
produzioni europee. Si è visto ad esempio che gli studiosi
del Nord Europa si sono trovati in qualche difficoltà quando
hanno avuto a che fare con artiglierie di produzione
mediterranea, soprattutto quando si è trattato di affrontare
bocche da fuoco commerciali non immediatamente riconoscibili
per provenienza e con differenti unità di misura.
Un piccolo esempio di queste difficoltà è
dato dalla disomogeneità tra le libbre da 12 once utilizzate
in Italia, che valgono mediamente sui 330 grammi, e quelle
da 16 once diffuse in Inghilterra, in Francia, nei Paesi
germanici e baltici e in Spagna, che spaziano dai 400 ai 490
grammi. Quando poi non si è assistito a veri e propri
svarioni per la confusione tra il Quintal castigliano (Kg
46) e il Cantaro di Sicilia (Kg 79) che ha fatto definire
come Sagro un Mezzo Cannone.
D’altro canto i cannoni di ferro colato di fabbricazione
inglese, francese, olandese e svedese, che compaiono
numerosi nei relitti dei nostri mari, sfuggono al controllo
degli specialisti mediterranei che poco li conoscono e che
sono naturalmente più a loro agio con le produzioni in
bronzo che, salvo poche eccezioni, connotarono la penisola
dal XVI al XVIII secolo.
I
numerosi ritrovamenti di bocche da fuoco, verificatisi anche
negli ultimi anni, stanno portando questa categoria di
manufatti all’attenzione degli archeologi che si occupano di
archeologia marittima: manufatti che, è bene ricordarlo,
rappresentano una sorta di fossile guida per il
riconoscimento dei relitti di età moderna sia per la loro
visibilità sia per la loro bassissima deteriorabilità. Ma è
evidente che il ruolo di semplice marker dei relitti moderni
mortificherebbe questa categoria di oggetti che meritano
invece di essere studiati in maniera analitica legandoli
ovviamente al contesto di rinvenimento.
Se da
un lato gli specialisti di artiglierie possono fornire un
grosso aiuto all’interpretazione dei contesti costituiti da
relitti navali, dall’altro il materiale messo a disposizione
dall’archeologia marittima sta fornendo informazioni
preziose alla conoscenza delle armi da fuoco pesanti.
In
assenza di date impresse sui pezzi, i contesti di
rinvenimento stanno, ad esempio, permettendo di creare delle
cronologie che per alcuni tipi, come le petriere, sono
ancora troppo vaghe. Inoltre le caratteristiche degli scafi
permetteranno di capire con che criteri venissero impiegate
le artiglierie a bordo della navi e come la presenza delle
artiglierie abbia condizionato l’evoluzione tipologica e
strutturale delle navi. Ed ancora, i rinvenimenti
sottomarini stanno offrendo rarissime testimonianze di
affusti che, essendo stati fabbricati principalmente in
legno, possono conservarsi in buone condizioni solo in
contesti sottomarini anaerobici.
Ricordiamo brevemente, dato il contesto, quali siano più in
generale le potenzialità informative di questi manufatti. Se
le più scontate sono quelle storico tecnologiche e
balistiche, non sono da meno quelle economico-produttive,
commerciali ed infine artistiche visto che, almeno i pezzi
in bronzo, spesso erano fusi da veri artisti che decoravano
e personalizzavano le loro opere.
A
proposito del livello di informazioni che a volte il pezzo
di artiglieria, in mancanza d’altro, può fornire per il
riconoscimento della nave, portiamo, solo come esempio,
l’individuazione del proprietario privato delle artiglierie,
e quindi oseremmo dire della nave, dei due pezzi che fanno
bella mostra di sé a Comiza nell’isola di Vis in Croazia.
Come vedremo, le iniziali e lo stemma gentilizio hanno
permesso di riconoscerne la proprietà nel famoso mercante
Alvise Gritti, figlio dell’altrettanto illustre doge Andrea.
Data
la sede, si è voluto dedicare questo convegno alla
produzione veneziana che ha avuto indubbiamente un ruolo di
primo piano almeno fino al XVII secolo. Si tratta di un
aspetto della produzione artigianale ed artistica della
Serenissima che pochi conoscono e che, da un lato, ha
contribuito pesantemente a rendere l’armata veneta temibile
agli avversari e che, dall’altro, ha costituito un prodotto
tecnologico di ottima commercializzazione in quanto molto
apprezzato dalle potenze straniere, non solo mediterranee.
I
numerosi interventi che verranno tenuti in questo convegno
su relitti e artiglierie veneziane, ben superiori alle
previsioni, confermano il peso storico della produzione
veneta e la quantità di dati sia archivistici sia
archeologici a disposizione e fanno ben sperare per un
maggiore interessamento anche istituzionale verso questa
materia, perlomeno nel Veneto.
Concludiamo questa breve presentazione del convegno con un
appello rivolto principalmente alle istituzioni preposte
alla tutela archeologia e artistica perché si impegnino più
di quello che hanno fatto sino ad ora per la salvaguardia di
questi oggetti. Troppo spesso infatti ci è capitato di
vedere pezzi di artiglieria, specialmente in ferro,
abbandonati al loro destino all’aperto o in scantinati
umidi. È necessario infatti che questi oggetti vengano
protetti e restaurati per permettere che essi vengano
studiati e quindi tramandati ai posteri ma è anche
necessario che si permetta la fruizione di questo patrimonio
anche alla collettività esponendolo in ambienti idonei. Il
problema del costo del restauro non deve essere usato, come
spesso accade, come alibi per trascurare questo prezioso
materiale ed è auspicabile che a livello, almeno regionale,
ci si doti di attrezzature per il suo trattamento e
consolidamento garantendogli tutta l’attenzione che merita.
Carlo Beltrame, Marco Morin, Renato
Gianni Ridella |