Architettura, che farne
DI
GIACOMO BORELLA
MARTEDÌ 29 GENNAIO 2013 12:20
Quando
hanno cominciato le città, le strade, le case, a essere
così brutte, tristi, antipatiche verso le persone e il
pianeta? Più o meno quando hanno cominciato a essere
costruite da chi aveva ricevuto un’educazione apposita,
formalizzata e istituzionalizzata, per imparare a
costruirle. Cioè quando i loro costruttori hanno smesso
di imparare a farle facendole. Chiaro che, più o
meno contemporaneamente, si sono presentati via via
sulla scena alcuni fattori di trasformazione non proprio
da poco, che hanno contribuito a complicare parecchio le
cose: industrializzazione, esplosione demografica,
società di massa, automobile, televisione... Eppure,
penso che anche in presenza di molti di questi ultimi
fattori di radicale trasformazione, laddove sono
sopravvissute forme di costruzione non formalmente
insegnate –
in genere in contesti di povertà, ma non solo – seppure
con conflitti, attriti e anacronismi, si sono continuate
qua e là ad avere architetture e parti di città meno
disumane. L’insegnamento impartito formalmente,
astrattamente, tende a staccare l’architettura dalle sue
radici terrestri, gravitazionali, corporee, somatiche, a
sradicarla dalla vita quotidiana e dall’ambiente,
atrofizzando le facoltà intuitive e pratiche dei futuri
costruttori, che vengono spinti a rimuovere le proprie
competenze ed esperienze vive di abitanti, le proprie
capacità di situarsi nell’ambiente e di interagire con
esso e con i suoi limiti.
Si può osservare
anche da questa particolare angolatura come
l’architettura e la città del Novecento, almeno laddove
il cosiddetto sviluppo si dispiega con più forza, e
certo portando a maturazione un processo iniziato nei
secoli precedenti, in larga parte si pongono con
l’ambiente in un rapporto di sopraffazione, eludendone i
limiti per mezzo della tecnologia. Man mano che le
possibilità tecniche lo consentono, quella che si
stabilisce lungo il Novecento è un’architettura che
sembra volersi auto-esiliare dal creato e dalla sua
infinita varietà, cancellando ogni rapporto di
reciprocità con esso. Le costruzioni ambiscono ad
affrancarsi dal suolo su cui poggiano, cercando di
realizzare una sorta di sospensione aerea, sia
figurativa che strutturale, che le libera dalla
gravitazione terrestre. In questo modo ci si sbarazza in
un sol colpo del dialogo tra forza di gravità e
levitazione che per millenni ha attraversato
l’architettura.
Ciò si realizza con
l’impiego di tecniche e materiali che non sono più
quelli offerti dal contesto specifico e dall’ambiente
vicino, ma piuttosto ricorrendo a un’unica combinazione
delocalizzata di materiali – cemento e ferro –
indipendente dalla dimensione locale. Ma se ciò è almeno
in parte spiegabile con la necessità di approvvigionare
grandi quantità di materiali per fronteggiare periodi di
massiccia inurbazione, è molto più difficile
comprendere, se non riferendolo direttamente al delirio
di onnipotenza moderno e al suo autolesionismo, un
secondo aspetto di questa volontà dell’architettura di
esiliarsi dal creato, ancora più importante: il suo
volersi alienare da ogni contesto climatico e
meteorologico specifico. Nell’architettura che ha
costruito per millenni l’habitat umano, i modi concreti
con cui le parti degli edifici si disponevano erano
risposte necessarie e spesso straordinariamente
inventive a fattori climatici specifici: le forme dei
tetti nascevano in rapporto alla frequenza delle piogge,
all’intensità delle nevicate, o, all’opposto, alla
scarsità delle precipitazioni (e quindi alla necessità
di convogliare e raccogliere le preziose acque piovane)
o addirittura alla loro totale assenza (come per esempio
nella regione di Lima, in Perù, dove non piove mai).
Così per la forma e
l’orientamento delle costruzioni stesse, la dimensione
delle loro finestre, lo spessore e composizione dei
muri, eccetera, in rapporto alla necessità di
proteggersi dalla radiazione solare o al contrario di
esporsi il più possibile a essa per guadagnarne il
massimo di calore; lo stesso per quanto riguarda la luce
o il vento. Spesso introducendo
dispositivi a volte elementari (come le persiane), a
volte complessi (come i camini a vento pakistani), per
poter fare entrambe le cose in stagioni diverse. E così
per una infinità di altri fattori: l’energia termica
immagazzinata nel sottosuolo (le abitazione scavate
sottoterra dal Nord Africa alla Cina), l’uso della
vegetazione come elemento di mitigazione, schermatura o
barriera, fino alla localizzazione stessa degli edifici
in rapporto a situazioni microclimatiche propizie. Tutto
ciò, va precisato, fuori da ogni rigido meccanicismo nel
rapporto tra causa ambientale e risposta architettonica
e, ovviamente, mescolato con una infinità di altri
fattori dei tipi più svariati, dall’astronomia alla
fisiologia. In questo contesto, il ricorso a consumi di
risorse energetiche per il riscaldamento (legno,
carbone, sterco essiccato eccetera) era limitata, per
necessità, alla sola parte mancante, molto differente a
seconda dei climi, che l’intelligenza e cura del
dispositivo architettonico non poteva raggiungere da sé.
L’architettura
“insegnata” che si
afferma nel Novecento cerca di sostituire a questa trama
di relazioni di reciprocità e di fitto interscambio con
il creato un dispositivo neutro, programmaticamente
dis-orientato e de-localizzato, il più possibile
standardizzato, al quale impone un clima artificiale. In
questo modo esso raggiunge la libertà da ogni vincolo
con la propria porzione di mondo terreno, al prezzo
della dipendenza costante dai dispositivi tecnologici e
del consumo continuo di risorse: la misura della sua
modernità ed “efficienza” sta nella profondità con la
quale è riuscito a sradicare i suoi legami di
reciprocità con il creato. Ora
è libero di occultare ogni segno che rimandi alla
condizione terrestre, ogni manufatto che testimoni
dell’esistenza del sole e della pioggia, rimuovere
persiane, tetti e grondaie, smaterializzare muri e
sostituirli con vetrate continue, a Mosca come a
Nairobi.
Un mese fa ero a
Quito, in Ecuador, a tremila metri sulle Ande, una città
con un clima così dolce e variabile per tutto l’anno che
non solo le case, ma neppure i musei hanno né
riscaldamento né aria condizionata. Eppure, perfino a
Quito, l’architettura cosiddetta moderna, quella delle
banche e dei grandi alberghi, per poter essere
completamente vetrata, deve essere fornita di impianti
di climatizzazione forzata: come una persona attaccata a
un respiratore artificiale, senza il quale non potrebbe
vivere.
Ricusando la forza di gravità, staccandosi dal suolo e
dai luoghi, affrancandosi dal clima terrestre,
l’architettura “insegnata” del Novecento, rotti i ponti
con il creato, è libera di essere pura immagine, pura
forma senza corpo, un “fantasma di mondo”, come Günther
Anders chiamava le immagini senza corpo della
televisione: “ormai viviamo in un mondo per il quale non
hanno valore il ‘mondo’ e l’esperienza del mondo, ma il
fantasma del mondo e il consumo di fantasmi”1 scriveva
nella prima pagina di L’uomo
è antiquato quasi
mezzo secolo fa.
Ma veniamo all’oggi: è cambiata in qualcosa
l’architettura contemporanea rispetto a quella della
modernità storica alla quale abbiamo accennato finora,
in questi ultimi decenni in cui l’“apocalisse
ambientale” da tema riservato a poche Cassandre è
diventato genere di successo sulle prime pagine dei
giornali? Sostanzialmente no, almeno per quanto riguarda
l’architettura dello show che domina la scena mediatica
e le università. Ciò che è veramente cambiato è che la
stessa architettura-fantasma – che con ulteriori
iniezioni di tecnologia, modellazione digitale, calcolo
parametrico..., nel frattempo è diventata
architettura-zombie – ora si
è improvvisamente scoperta ecologica, come per magia,
senza cambiare assolutamente in nulla.
Quando va bene, sono
gli esperti di risparmio energetico, impiantisti e
fisici tecnici che sono stati messi al lavoro per
attenuare, attraverso ulteriori aggiunte di tecnologia,
i comportamenti profondamente antiecologici di queste
architetture, ma solo di quel minimo che serve per
soddisfare i parametri di legge, senza poterle
modificare neppure in piccola parte nella sostanza. La
cosa grottesca è che spesso le normative, oggi, almeno
quelle europee, per quanto burocratiche e molto blande,
sono più avanzate in senso ecologico della cultura
architettonica cosiddetta avanzata!
Vale quindi la pena di ripassare velocemente quanto
sembrerebbe totalmente scontato.
Gli edifici in cui viviamo –
sia durante la loro fase di costruzione, di produzione e
trasporto delle componenti e dei materiali, sia
soprattutto durante la loro vita, con noi al loro
interno, durante la nostra – incidono per una parte
immensa sul bilancio ecologico complessivo del pianeta.
L’architettura, cioè il modo nel quale costruiamo il
nostro ambiente fisico, ha quindi una relazione diretta
con i fenomeni di modificazione irreversibile degli
equilibri vitali del pianeta che oggi, dopo decenni di
negazionismo finanziato dalle corporation petrolifere e
automobilistiche e dalle lobby nucleari, anche i più
accaniti sviluppisti devono ammettere: sono i nostri
contemporanei “cavalieri dell’apocalisse”, dal caos
climatico alla contaminazione nucleare, diventati
notoriamente molti più di quattro. La minaccia
ambientale riguarda oggi, in prospettiva neanche troppo
lunga, le condizioni stesse di abitabilità del pianeta.
In ciò essa va ad affiancarsi, certo più subdolamente, a
un’altra minaccia totale leggermente più vecchia, ma
ancora piuttosto giovane e arzilla: la bomba atomica.
Günther Anders sulla
bomba, e sul radicale salto di qualità in termini
concettuali, morali e filosofici imposto dalla sua
minaccia: “al posto della domanda-come è
subentrata la domanda-se:
la domanda se l’umanità continuerà a esistere o meno”.
Di fronte a questo smisurato salto di qualità, Anders
fissa alcuni concetti che oggi ci possono essere
disperatamente utili anche di fronte alla minaccia
ambientale annunciata. Il dislivello
prometeico è
la differenza tra la capacità umana di inventare nuove
tecnologie e la sua effettiva possibilità di
comprenderne o percepirne gli effetti: “nel sentire,
siamo inferiori a noi stessi”. Da qui il concetto che,
rispetto alla propria tecnica, “l’uomo è antiquato”. La vergogna
prometeica è
invece l’imbarazzo dell’uomo del nostro tempo per il
fatto di non essere perfetto come gli apparecchi che ha
creato, per non essere esso stesso una macchina: è la
migliore spiegazione dell’architettura che si vergogna
della sua “terrestrità”, che ripudia il creato con
sempre maggiore accanimento. Il dislivello prometeico è
anche “la ragione principale della nostra cecità
all’Apocalisse”, insieme alla nostra fiducia
cieca nel progresso e nella tecnologia. Di fronte alla
dismisura della minaccia, la nostra epoca è
caratterizzata dalla incapacità
di provare angoscia: “paragonato al
quantitativo di angoscia che sarebbe confacente, che
dovremmo realmente provare, siamo semplicemente degli analfabeti
dell’angoscia. (...) Ciò che ci manca
soprattutto è la capacità di sentire l’angoscia
adeguata, quel contributo di angoscia che
dovremmo fornire se vogliamo liberarci realmente dal
pericolo in cui versiamo...”2. Una “capacità
di sentire l’angoscia” che richiama alla mente quella
“capacità di soffrire” su cui scriverà Heinrich Böll più
tardi, nei suoi ultimi anni3.
La grande architettura “insegnata” di oggi è
un’architettura fossile. Con due significati distinti:
in senso metaforico, è la traccia senza vita
dell’architettura che ha dominato nel secolo scorso i
paesi sovrasviluppati, la parodia della sua fiducia
cieca nella tecnologia (qualsiasi essa sia), nella
crescita, nell’infinita accumulazione del denaro e nella
disponibilità infinita delle risorse. In senso
letterale, perché la sua vuota onnipotenza formale, la
sua inconsistenza corporea, è fondata su un consumo
smisurato di combustibili fossili o atomici.
L’attiva partecipazione di questa architettura fossile
alla distruzione ambientale non è un incidente di
percorso, ovviabile con un’ulteriore aggiunta
tecnologica, ma l’effetto coerente dei suoi fondamenti
programmatici.
Se c’è una qualche minima speranza di ritrovare di nuovo
una piccola architettura umana, sicuramente
post-fossile, certo un’architettura minore e minoritaria
(e dobbiamo saperne trovare i segni in giro per il
mondo, e ce ne sono), credo dovrà affrontare due
compiti, uno triste e l’altro allegro:
1) risalire la china del nostro “analfabetismo
dell’angoscia”, ricercare la “capacità di sentire
l’angoscia adeguata” al salto di qualità che la minaccia
ambientale rappresenta, tenerla con sé e renderla
operativa quando si lavora sui temi dell’architettura e
della città. è più seria e abitabile un’architettura
dell’angoscia, o della “disperazione creativa”, come
diceva Colin Ward, piuttosto che l’attuale architettura
dello show, con i suoi rendering popolati da fantasmi
sorridenti, come se “la vita fosse diventata un modo per
passare il tempo”4.
2) ritrovare, pur nello spaesamento delle città e nella
dispersione dei luoghi, il senso di appartenenza al
creato. Merleau-Ponty, nelle sue conversazioni
radiofoniche del 1948, parla in modo toccante della
ricerca di Gaston Bachelard sui quattro elementi
classici: aria, acqua, fuoco, terra. In essa, ciascuno
di questi elementi è “come una patria per ogni uomo, (…)
il sacramento naturale che gli arreca forza e felicità”5.
Da qui, ricercare malgrado tutto un’architettura
allegra, che riconosce la terra come dono, la manutiene
e ne raccoglie i frutti. Un’architettura dei sensi e del
limite, che come quella anonima pre-moderna, ma senza
travestimenti neotradizionalisti, sia come una canzone
che celebra il creato.
Note
1 Günther
Anders, L’uomo
è antiquato, 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca
della seconda rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri 2003.
2 Ivi
(questa e tutte le citazioni precedenti).
3 Heinrich
Böll, La
capacità di soffrire, Studio Tesi 1990.
4 Günther
Anders, L’uomo
è antiquato, op.cit.
5 Maurice
Merleau-Ponty, Conversazioni,
SE 2002.
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