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Cacciamine alla ricerca dei resti romani
Inizia al largo del Lido la campagna di indagine
archeologica. Individuati quattro relitti |
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Il cacciamine “Numana” della Marina militare sta per
esplorare le acque antistanti il Lido e il litorale di
Jesolo. L’obiettivo è ambizioso: riprendere e catalogare
i resti preziosi di quattro relitti, due di epoca romana
e due a cavallo tra l'età moderna e il tardo medioevo.
Venezia, infatti, rappresenta la terza tappa della
progetto “Archeomar”, la campagna di indagini e
prospezioni archeologiche sottomarine che unisce Marina
Militare a Ministero per i beni e le attività culturali
(MiBAC). L’iniziativa è stata presentata ieri a bordo
del “Numana”, ormeggiato all'Arsenale, dall'ammiraglio
Carmelo Bonfiglio, comandante del Comando forze
contromisure mine e dal responsabile del progetto
Archeomar, Luigi Fozzati, che ne ha illustrato gli
aspetti innovativi. «Grazie a questo accordo, le
sofisticate apparecchiature di ricerca subacquea di cui
è dotato il cacciamine vengono impiegate anche per
censire e aggiornare il database dei relitti », ha
spiegato Fozzati. «Arricchire la banca dati di Archeomar
ci permette di proteggere e valorizzare il nostro
patrimonio culturale subacqueo», ha aggiunto. Le
indagini saranno condotte congiuntamente da personale
specializzato della Marina militare e da archeologi
subacquei del MiBAC. Per la “missione” veneziana, che si
svolgerà fino a domani, compatibilmente con il tempo,
l'archeologo Alessandro Asta, della Soprintendenza per i
beni archeologici del Veneto, è stato incaricato di
seguire la mappatura dei relitti ospitati dai fondali
marini del Lido e di Jesolo: «Non sappiamo molto
riguardo a questi quattro relitti, per questo speriamo
di scoprire qualcosa di nuovo grazie al cacciamine
Numana – spiega Asta – I primi due, presenti nelle acque
antistanti il Lido sono presumibilmente di epoca romana,
come dimostra il ritrovamento di un ceppo d'ancora in
piombo, mentre gli altri due, che trasportavano carichi
lapidei, risalgono probabilmente all'età moderna o tardo
medievale». Le segnalazioni arrivano, solitamente, da
pescatori o appassionati di archeologia subacquea che
contattano la Marina militare o il ministero per
informare della presenza di reperti archeologici sui
fondali.
Silvia Zanardi |
La Nuova Venezia 26 6 2013 |
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La Repubblica, 26
luglio 2011
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Così "scavare" diventa una giungla senza regole
Francesco Erbani |
La triste storia dell’archeologia
preventiva in Italia: l’ennesima occasione perduta del
nostro patrimonio culturale.
Vita da archeologo. Marco Martignoni,
bolognese, quarant’anni, due figli, laurea,
specializzazione in archeologia cristiana e dottorato in
età tardoantica e altomedievale, lunghe esperienze di
scavo in cantieri universitari, poi una trafila di
contratti a progetto, ha deciso di smettere. Niente più
piccone e scalpello, bàsoli e capitelli. Farà il
promotore finanziario. L’ultima esperienza da archeologo
la rammenta come un incubo. A Modena si costruiva un
grande parcheggio nel parco Novi Sad. Dovendo scavare in
profondità si affidarono le ricognizioni archeologiche a
due imprese. «Tutte le mattine il capocantiere ci
accoglieva con un cronometro e segnava i minuti di
ritardo. Poi a fine mese tirava le somme e ci toglieva i
soldi dal compenso». Occorreva far presto. Incombevano
le penali. Ma lei aveva un contratto a progetto, non era
tenuto a rispettare orari. E poi il suo era un lavoro
specializzato, di lunga tradizione disciplinare, uno dei
vanti della cultura italiana... «Sì, ma nessuno, neanche
io, ha protestato. Siamo pagati a ore - sette, otto euro
lorde. A poche settimane dalla scadenza del contratto mi
sono ammalato di otite. Lavoravamo sotto la neve,
mattina e sera. Il medico mi ha imposto di restare a
casa dieci giorni. Ho mandato il certificato. Ma dopo
due giorni mi ha chiamato il capocantiere: il mio
contratto era annullato».
La storia di Martignoni svela uno spaccato di come si
pratica l´archeologia in Italia. A Modena sono emersi
rilevanti reperti (una strada romana utile per capire i
collegamenti nord-sud, un pozzo e una sequenza di
sepolture medievali...). I pezzi vengono asportati e
rimontati sopra il parcheggio, si allestisce una piccola
mostra. Italia Nostra, Legambiente e Wwf presentano
denuncia alla Procura. Protestano contro la distruzione
di un patrimonio. Il magistrato chiede che sia
archiviata, ma il Gip impone nuove indagini. Nel
frattempo il parcheggio è quasi completato.
A Modena, comunque vada, l’archeologia è l’effetto
secondario prodotto dai lavori per un parcheggio. Non il
risultato di un’iniziativa culturale e di tutela. È
stata chiamata "archeologia preventiva". Qualcun altro
preferisce la formula "archeologia selvaggia". Lo Stato
non ha un soldo per gli scavi e si accorda con imprese
piccole e grandi, pubbliche e private che devono a loro
volta scavare per le linee ad alta velocità o per
piazzare cavi elettrici, fondazioni, tubature. Sono
queste che pagano gli archeologi. Ma per loro
l’archeologia, la tutela e la conoscenza, non sono il
fine ultimo. Il fine ultimo è far presto e risparmiare.
Che questa sia la norma dell’archeologia in Italia lo
ammette Luigi Malnati, direttore generale per le
Antichità del Ministero per i Beni culturali: «Il 90 per
cento degli scavi archeologici si fanno così». Nel 2006
fu approvata una norma che stabilisce siano le imprese
ad avviare sondaggi archeologici preventivi e ad inviare
una documentazione alla soprintendenza che decide se
approfondire gli accertamenti. Queste attività sono
svolte da archeologi (o da cooperative o da piccole
imprese) a carico delle ditte, ma sottoposti spesso a
condizioni di lavoro che dire precarie è un eufemismo. E
dunque ricattabili. «Questi giovani sono fra l’incudine
dell’impresa che li paga e il martello della
soprintendenza alla quale devono riferire», aggiunge
Malnati. Con un’aggravante, che è sempre il direttore
generale a raccontare: «Le soprintendenze devono
vigilare e dirigere l’attività di scavo. Ma con poco
personale e sempre più anziano questo è un compito del
tutto aleatorio». E il risultato qual è? «Il materiale
rinvenuto, quando va bene, viene depositato in magazzini
della soprintendenza, dove forse è al sicuro, ma dove
nessuno lo studia, lo cataloga, lo porta a conoscenza
della comunità scientifica, lo rende visibile al
pubblico. Raramente l’impresa paga un’indagine
successiva, una pubblicazione, una mostra. Uno scavo
così è come non farlo».
Questo quando va bene. Quando va male, se si trova
qualcosa di importante, ma di intralcio al cantiere, si
chiude un occhio e poi anche l’altro. «A Modena noi
archeologi abbiamo lavorato bene, pure nelle condizioni
che ho raccontato. Ma in genere gli archeologi hanno
meno diritti dell’ultimo operaio. E sono soggetti a ogni
forma di pressione», racconta Martignoni, uno dei pochi
che compaia con nome e cognome, mentre innumerevoli sono
le storie anonime di vessazioni e di tutela che va a
ramengo (alcune vicende sono raccontate sul blog
archeologiainrovina. wordpress. com).
In sé l’archeologia preventiva non sarebbe il male
assoluto. «In Francia questa attività è coordinata da
un’istituzione statale, l’Inrap, che è finanziato con il
5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili
francesi», spiegano all’Ana, l’Associazione nazionale
archeologi, che con la Cia, Confederazione italiana
archeologi, organizza la gran parte dei professionisti.
«L’Inrap interviene in ogni lavoro che comporti scavo.
Ha un suo personale (archeologi, operai), un suo
tariffario, garantisce tempi certi». In Grecia la
situazione è simile a quella italiana, «ma i funzionari
pubblici sono molti di più e molto più giovani»,
spiegano all’Ana. Esperienze considerate positive non
mancano in Italia. A Napoli, in occasione dei lavori per
la metropolitana, la soprintendenza (Daniela Giampaolo e
altri) ha scavato ottenendo risultati eccellenti. Sono
state allestite mostre e pubblicazioni. E i reperti sono
in gran parte visibili. A piazza Municipio, piazza della
Borsa, piazza Nicola Amore sono stati rinvenuti strati
profondi risalenti a un bacino portuale fra IV e III
secolo a. C. e di lì fino agli sventramenti
ottocenteschi, passando per angioini, aragonesi e viceré
spagnoli: l’intera storia napoletana.
Per mettere ordine nella giungla dell’archeologia
preventiva, l’ex direttore generale, Stefano De Caro,
aveva approntato un documento che fissava le linee guida
di intervento. Le norme si sarebbero applicate a tutti i
lavori pubblici o di interesse pubblico e anche a quelli
privati di pubblica utilità. La filosofia era esplicita:
«Una villa romana ovvero un villaggio preistorico
conservato nei buchi di palo delle capanne possono, anzi
debbono condizionare il progetto di una ferrovia o di un
ospedale, ma affinché la cittadinanza che patirà il
disagio del ritardo, comprenda la necessità di tale
sacrificio collettivo è necessario che la stessa villa
sia al più presto portata a conoscenza del pubblico non
meno che degli specialisti». Ma, andato in pensione De
Caro a fine 2010, di quel testo non c’è più notizia. Nel
frattempo è stato sottoscritto un accordo che garantisce
alla società Terna, proprietaria delle reti di
trasmissione dell’energia elettrica, che per i loro
lavori si applica l’archeologia preventiva solo per gli
scavi superiori ai 5 chilometri lineari.
L’archeologia resta dunque una terra di nessuno, dove si
sprecano saperi ed energie di cui l’Italia menava vanto.
Dicono all’Ana: «Anche in Turchia hanno fatto passi da
gigante, investimenti, assunzioni: in Italia invece
lavorano nelle soprintendenze appena 350 archeologi e
all’ultimo concorso per 30 posti si sono presentati
5.500 candidati, destinati a rimanere l’esercito dei
precari sfruttati e privati anche del diritto di
pubblicare i risultati di ciò che scavano». L’Ana
elabora periodicamente un censimento degli archeologi.
Sono molto giovani (oltre il 75 per cento hanno meno di
40 anni), specializzati (il 40 per cento),
prevalentemente donne (70 per cento), ma solo il 3 per
cento lavora in strutture pubbliche (soprintendenze,
musei...) e appena il 15 è impegnato in scavi
«programmati, finalizzati alla ricerca scientifica». Nel
2006 le partite Iva erano il 14 per cento, quest’anno
sono il 27. Ultimo dato, forse il più inquietante: solo
il 3,98 per cento ha un’anzianità di servizio di 10
anni. Vuol dire che la gran parte degli archeologi,
laureati, specializzati, dottorati, dopo un po’
abbandona. Come Marco Martignoni.
Trovato su: http://eddyburg.it/article/articleview/17373/0/92/
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Italia Nostra: «Via Venezia dai patrimoni
dell'umanità» |
La Repubblica 20 07 2011 |
Anche l’Unesco si accorge che Venezia, uno dei
patrimoni culturali dell’umanità, è stata messa a
rischio da dissennate politiche urbane. Su la
Repubblica, 20 luglio 2011 (m.p.g.) |
Venezia chiama l’Unesco. E l’Unesco risponde. Ma
stavolta dalla laguna non si chiede di ottenere la
protezione di qualche monumento. Al contrario. Si
chiede se non sia il caso di escludere la città di
San Marco dalla World Heritage List, l’elenco dei
siti culturali di importanza mondiale. Il motivo? La
lunga serie di manomissioni attuate o in programma
nell’area lagunare.
È Italia Nostra che si è rivolta all’organismo
incaricato dall’Onu per cultura, patrimonio
storico-artistico e naturale. La lettera è firmata
da Lidia Fersuoch, che guida la sezione veneziana
dell’associazione, e dalla presidente nazionale
Alessandra Mottola Molfino. «La laguna è in serio
pericolo di veder distrutte le sue forme
caratteristiche», si legge. La risposta dell’Unesco
è stata rapida: faremo indagini e decideremo. Ma
intanto contro l’iniziativa di Italia Nostra si è
scagliato il sindaco Giorgio Orsoni che se l’è presa
con chi «va in giro per il mondo a lanciare appelli
inutili e dannosi».
I pericoli che gravano su Venezia sono di due tipi,
sostiene Lidia Fersuoch. In primo luogo un turismo
massacrante, alimentato negli ultimi tempi da
gigantesche navi da crociera che attraversano il
bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. In
secondo luogo, una serie di progetti, avviati o in
cantiere. Il Mose, per esempio, il sistema di
paratie contro l’acqua alta, le cui opere sono in
costruzione (l’isola artificiale alla bocca del Lido
grande 13 ettari). Oppure «il centro portuale a
Dogaletto-Giare, all’interno della laguna, circa tre
milioni di container in una regione dove esistono
già tre interporti, tutti sottoutilizzati», aggiunge
Fersuoch. «Quella è una zona dal fondale bassissimo,
in cui sopravvivono diverse barene, le terre
sommerse dalle maree». Lidia Fersuoch cita anche le
cementificazioni al Lido, nell’area dell’ex Ospedale
a Mare, dove sorgerà un complesso residenziale,
commerciale e alberghiero. Di fronte
all’insediamento è previsto un porto turistico
grande 50 ettari, quanto l’isola della Giudecca.
L’area è stata venduta dal Comune per realizzare il
nuovo Palazzo del Cinema. Che però non si farà più.
Venezia e la laguna hanno un destino inscindibile,
sottolinea Alessandra Mottola Molfino: «Questo è un
concetto molto chiaro all’Unesco, che ha incluso la
laguna nel patrimonio da proteggere tanto quanto le
chiese e i palazzi della città».
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